Giurisprudenza annotata

15.9. CGCE, 19 maggio 2009


Abstract


Secondo la Commissione europea, la Repubblica italiana, nel prevedere una disposizione che impedisce di gestire una farmacia alle persone fisiche non laureate in farmacia e alle persone giuridiche che non siano composte esclusivamente da soci farmacisti, sarebbe venuta meno agli obblighi su di essa incombenti in virtù degli articoli 43 e 56 TCE (in materia di libertà di stabilimento e di libera circolazione dei capitali). Per questo propone ricorso alla Corte di Giustizia, chiedendo che venga dichiarato l’inadempimento dell’Italia. Questa si difende rilevando che il diritto comunitario riserva agli Stati membri la competenza a disciplinare il settore delle farmacie, ad esclusione delle questioni relative al mutuo riconoscimento dei diplomi, dei certificati e degli altri titoli. Inoltre, le restrizioni che discendono dalla disciplina nazionale sarebbero giustificate dall’interesse generale alla tutela della sanità pubblica, si applicherebbero senza discriminazioni e garantirebbero la preminenza dell’interesse al rifornimento regolare di medicinali alla popolazione rispetto a considerazioni di carattere economico.

La decisione della Corte di Giustizia muove dalle seguenti premesse. Si osserva, in primo luogo, che la salute e la vita delle persone occupano il primo posto tra i beni e gli interessi protetti dal Trattato e che spetta agli Stati membri decidere il livello al quale intendono garantire la tutela della sanità pubblica e il modo in cui questo livello deve essere raggiunto. In secondo luogo, poiché né la direttiva 2005/36 né alcun’altra misura di attuazione delle libertà di circolazione garantite dal Trattato, prevedono condizioni di accesso alle attività del settore farmaceutico che precisino l’ambito delle persone titolari del diritto di gestire una farmacia, la normativa nazionale dev’essere esaminata con riguardo alle sole disposizioni del Trattato. In terzo luogo, si fa notare che la disciplina della gestione delle farmacie varia da Paese a Paese, essendovi in alcuni casi una riserva di proprietà in favore di farmacisti, mentre in altri casi si ammette che soggetti non aventi tale qualifica possano comunque detenere la proprietà delle farmacie (pur dovendo affidare la gestione di queste ultime a farmacisti stipendiati).

Dopodichè, rilevata l’applicabilità al caso di specie delle norme, correttamente invocate dalla Commissione, di cui agli artt. 43 e 56 TCE, la Corte si chiede se le restrizioni effettivamente derivanti dalla normativa italiana siano eccessive, ovvero se si possano considerare proporzionate rispetto al fine con esse perseguito. Sotto questo profilo, la Corte ritiene che il margine di discrezionalità lasciato agli Stati membri nella disciplina della materia sia tale da consentire ad uno Stato membro di ritenere sussistente il rischio che eventuali disposizioni normative dirette a garantire l’indipendenza professionale dei farmacisti (che vengono proposte dalla Commissione come alternativa al regime vigente in Italia) vengano in realtà osservate, tenuto conto che l’interesse di un non farmacista alla realizzazione di utili non sarebbe temperato come quello dei farmacisti indipendenti e che la subordinazione dei farmacisti, quali dipendenti stipendiati, ad un gestore potrebbe rendere difficile per essi opporsi alle istruzioni fornite da quest’ultimo. Ciò, unito ad altre osservazioni, induce a considerare non accertato che una misura meno restrittiva delle libertà garantite dagli artt. 43 CE e 56 CE, diversa dalla disposizione di esclusione dei non farmacisti, permetterebbe di garantire, in modo altrettanto efficace, il livello di sicurezza e di qualità di rifornimento di medicinali alla popolazione che risulta dall’applicazione di tale disposizione. Per questo, la Corte afferma che la normativa nazionale risulta idonea a garantire la realizzazione dell’obiettivo da essa perseguito e non va oltre quanto necessario per raggiungerlo.


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